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Il mio viaggio nella storia del cinema: dal 1960 al 1964

Sono quasi al termine della mia carrellata nella storia del cinema, perché attualmente mi sto godendo la visione dei film del 1969, nice, e ne avrò certo per 2 mesi. Quindi col prossimo post mi metto in pari, ma intanto ecco qualche spunto per questi 5 bellissimi anni di cinema che sono la prima metà degli anni '60.
1960
Di quest’anno ho visto 275 titoli e ho dato almeno un 8 a 47 film, è un grande anno di cinema ma ne segnalo giusto 5, e tutti italiani! E per complicarmi la vita non parlo né della Dolce Vita, né dell’Avventura, né di Sordi e nemmeno della Ciociara. Mi sono piaciuti? Certo che sì, perché a qualcuno no?
Era notte a Roma” di Rossellini mi piace tantissimo. Intanto è il mio film preferito con Giovanna Ralli, che prima della Ferilli c’era lei, e poi c’è Leo Genn (Petronio di Quo Vadis?), il mio beniamino Renato Salvatori e in un ruolo commovente il russo Sergey Bondarchuk, il quale tra l’altro nel 1959 aveva diretto e interpretato l’intenso e ottimo “Il destino di un uomo”. Torniamo alla Ralli che in piena WWII vive in una casa all’ultimo piano di un palazzo ed escogita gli espedienti del caso per portare a casa un po’ di zucchero, del vino o della pasta. Siccome è sveglia, i partigiani la scelgono per ospitare in gran segreto tre soldati alleati su in soffitta. La Ralli si ribella ma alla fine fa il suo dovere, e i 3 sono al sicuro. Per accedere al soffitto c’è un passaggio segreto dietro l’armadio (Anna Frank mi viene in mente), e i 3 diventano amici tra loro e amici suoi. Ora però il problema è che siamo in guerra e che è un film di Rossellini, non di Walt Disney. Quindi tenetevi pronti.
Adua e le compagne” invece è un gran cast al femminile capitanato da Simone Signoret con il buon supporto di Emmanuelle Riva e Sandra Milo. Molto prima di “Ciro! Ciro!” la Milo era attrice di culto degli anni ’60, e non solo in mano a Fellini. In quest’anno per esempio è accanto a Lino Ventura in “Asfalto che scotta”, per dire. Certo è la Milo, la voce è quella, la figura è quella, la verve anche. Qui hanno da poco chiuso le case chiuse e sfrattato le Signorine che le popolavano. Signoret decide quindi di mettersi in affari e avviare una trattoria in un casolare di periferia insieme alle amiche. Faranno a turno in cucina e ai tavoli, e magari se qualche cliente vuole qualche massaggio, perché no? L’idea funziona e la trattoria va bene, ma le amiche cominciano a voler cambiare vita, o si rendono conto che in realtà non possono. Ci sono quindi 4 reazioni diverse causate dagli eventi che si susseguono. È un film in cui si sorride e che ti dà un po’ di malinconia, ma si sente l’odore di frittata, di cipolla, di basilico.
Dolci inganni” di Lattuada è il primo film che ho visto con Catherine Spaak. Per me la Spaak era una presentatrice tv. Da ragazzo guardavo Harem, o anche Forum quando lo presentava lei. Sì, sapevo che aveva recitato, ma non ci avevo mai fatto caso veramente, mi aspettavo un paio di film senza pretese. Invece, anno dopo anno nel mio percorso cronologico mi accorgo che nella prima metà degli anni ’60 la Spaak aveva i ruoli migliori, era bellissima, brava e tra le attrici più famose. È stata una rivelazione per me. Teniamo presente che la Spaak aveva nel 1960 solo 15 anni. Era bravissima! Per l’età che aveva spesso aveva parti alla Lolita. Qui ad esempio è attratta da un amico di famiglia che ha quasi 40 anni. La Spaak era seducente, fresca, intrigante. Gran sorriso. Questo film e anche altri successivi mi sono parsi modernissimi: la settimana prima vedi le attrici americane con le gonne a campana e il filo di perle del dado Knorr, la settimana dopo c’è la Spaak che flirta con un architetto. Magnifica.
La maschera del demonio” è uno dei film del filone italiano horror. Quando leggo horror penso al sangue e alla motosega elettrica, quindi non faccio una faccia contenta, mi stufo. Però a fine anni ’50 si attiva questo piccolo genere in cui emergono mostri e vampiri che in breve si afferma e crea uno stile invidiato ovunque. Sì, qui una donna viene uccisa con una maschera piena di chiodi acuminati, ma non devi metterti le mani davanti agli occhi perché fa troppo impressione. C’è il giusto bilanciamento tra suspence, storia, effetti speciali e ridicolaggine. Non sono film di livello A+ però sono veramente tipici di quest’epoca, ti fanno capire meglio di altri il gusto di chi andava al cinema in questi anni e per questo per me sono interessanti.
Rocco e i suoi fratelli” è un film che voglio rivedere, ma non so quando sarò pronto per rivederlo. Quest’impressione me la fanno pochi film, quelli che mi colpiscono così in profondità che devo prepararmi psicologicamente alla visione successiva, e anzi devo prima capire se voglio affrontarla. Schindler’s list, Se7en, Casino e Full Metal Jacket sono altri film che mi hanno fatto lo stesso effetto. Dunque qui abbiamo una famiglia di emigrati che va a vivere in un seminterrato a Milano. Sono tanti in poco spazio e si arrangiano. La matriarca è l’ottima Katina Paxinou che capisce e gestisce con pochi sguardi. I figli sono Rocco e i suoi fratelli. C’è qualcosa di buono in questi ragazzi, ma c’è anche la vita in agguato. Le strade che prendono sono forse prevedibili se vogliamo, ma questo le rende anche più tragiche. Una donna entra nella vita dei fratelli Alain Delon e Renato Salvatori. Ora, c’è una scena in cui Alain Delon è disteso sul letto, un po’ sbilenco, con lo sguardo rivolto verso la telecamera, e quella scena è indelebile nella mia memoria, è come se Visconti mi sussurrasse all’orecchio quello che vuole dire. Ma ovviamente il dramma che si consuma tra Salvatori e Girardot è ovviamente il cuore del film ed è la scena che non voglio mai più vedere, perché nel farlo perderebbe forse la carica di sorpresa, sgomento, emozione che mi ha trasmesso la prima volta e ci resterei male, o peggio ancora mi renderebbe ancora più sorpreso, sgomento ed emozionato della prima volta, e ci resterei secco.
1961
Di quest’anno ho visto 250 titoli, e 45 hanno preso almeno 8. Compresso tra due anni fantastici, il 1960 e il 1962, qui mi esalto meno, ma ci sta.
Madre Giovanna degli angeli” di Jerzy Kawalerowicz è uno di quei film che ti fa sentire figo e intellettuale già solo a pronunciare il nome del regista, ma il punto è che mentre scrivo queste righe ho in mente la scena della suora posseduta dal demonio che spalle al muro fronteggia il giovane sacerdote inviato nel convento a indagare, e capisco che quest’immagine così potente è scena da grandi film. Tutto il film è inquietante e malato, intanto sembra più vecchio di quello che è, pare realizzato negli anni ’40, il che secondo me aggiunge disagio alla visione. Però negli anni ’40 alcune scene sarebbero state solo abbozzate e il film avrebbe avuto un diverso impatto. Il prete scoprirà come mai il demonio ha preso possesso del convento?
L’anno scorso a Marienbad” di Alain Resnais è un film che non ci ho capito niente. Lo confesso. Tuttavia, mentre lo guardavo con estrema perplessità ne restavo ugualmente affascinato. Come un bimbo che è schifato da uno scarafaggio spiaccicato sul pavimento e però vuole vederlo ancora più da vicino, più passavano i minuti e più cercavo di capire dove voleva andare a parare Resnais, più mi arrendevo e mi lasciavo ipnotizzare. Alla fine non mi interessa se non ci ho capito niente, so solo che per un’ora e mezza sono stato preso e portato in un altro posto e ho visto qualcosa che non avevo mai visto prima. Per cui, mi è piaciuto.
La primavera romana della signora Stone” di José Quintero invece è un bel melodramma. C’è una signora che fa un viaggio a Roma e si imbatte in un giovane gigolò. Tutto qua ma attenzione: lei è Vivien Leigh e lui Warren Beatty. La Leigh aveva 50 anni mentre Beatty 25. Lei era una rosa conservata tra le pagine di un vecchio diario, lui è il rumore dell’acqua del mare sugli scogli; nello sguardo di lei ci sono tante risposte, quello di lui ti fa fare mille domande. Bellissima e tormentata la Leigh nel suo penultimo ruolo, bellissimo e spavaldo Beatty nel suo secondo ruolo: combinazione da non perdere.
I peplum andavano tanto a inizio anni ’60. Cinecittà era invasa da sandali, toghe, Circi e Meduse. L’epoca d’oro di questo genere è quella che va dal 1958 al 1963 circa. Per ogni Marvel di oggi c’erano 2 Ursus all’epoca. Sansone, Argonauti, Macisti contro Zorro e assurdità del genere. Grandi massi di polistirolo, matrone romane coi capelli stile Jackie Kennedy, ave Cesari e muscoli luccicanti, la gente adorava i peplum. Tante erano le star di questo genere che però non riuscirono a farsi un nome al di fuori. Tutto finì probabilmente con 2 film e cioè la Caduta dell’impero Romano, che fu un fiasco, e Cleopatra, che mandò il genere in burnout e dopo nessuno ne voleva più sentire parlare.
I musicarelli, a loro volta, erano un genere tipico degli anni ’60, In realtà si estendono più o meno dal 1958 al 1972, ma trovano l’apice coi vari Gianni Morandi, Rita Pavone, Caterina Caselli e Little Tony, quindi verso il 1964-67. Bisogna considerare che da Modugno in avanti i canzonettisti dei primi anni ’50 erano già surclassati. Andavano ora gli urlatori. Nasce una generazione di artisti fortunatissima, che in gran parte ancora oggi ha largo seguito, basti pensare a Mina, Vanoni, Celentano, che si affacciano volentieri al cinema di quegli anni. I musicarelli si somigliano: ci sono giovani protagonisti il cui amore è osteggiato dalle famiglie o giovani di talento che cercano di farsi strada nel mondo della canzone. Questi sono i temi. I primi musicarelli sono sequenze di canzoni intercalati da qualche scena con Nino Taranto onnipresente, i successivi sono un po’ più maturi e le canzoni sono più integrate con le storie. Per esempio quelli con Morandi sono così. Verso la fine degli anni ’60 c’era già invece un cambiamento nel gusto sia musicale sia proprio culturale, e si vede che il genere sta per arrivare al capolinea.
1962
Quanto mi piace quest’anno di cinema! Forse è il mio preferito di sempre? Ne ho visti 254 di titoli e ho dato almeno 8 a ben 81 titoli. Secondo me è perché non mi aspettavo che mi piacesse così tanto, provo a spiegare. Quando ero ragazzino io i protagonisti del cinema italiano di questi anni mi sembravano così vecchi e antiquati, che a prescindere io non li amavo e mi rifiutavo di vedere questi film. Sapete come succede coi ragazzi, per loro una moda di 3 mesi fa è archeologia. Quindi quando in tv uscivano Manfredi, Tognazzi, Gassman, Sordi, Mastroianni & co, sbruffavo e dicevo uff che palle e me ne andavo a giocare al Commodore64. Questa è la mia epoca. Ora, trascorsi 40 anni, fedele al mio proposito di guardare di tutto senza preconcetti e con gli occhi di chi vede per la prima volta questi film, resto sorpreso: siamo in un’epoca d’oro del cinema italiano e non solo: le città, le auto, gli abiti, i modi di dire, i gesti degli attori di tutti gli anni ‘60, mi riportano flash dei miei genitori, dei miei nonni, delle persone che vivevano negli anni prima che nascessi io. È come assaporare momenti di una vita che non hai potuto vivere, è bello! Queste cose di cui sto blaterando hanno senso solo a livello personale, certo, d’altra parte questa rassegna “è personale” e non ha la pretesa di indicare quanto oggettivamente di meglio sia uscito in questi anni. Tenuto a mente ciò ecco 5 titoli, giusto per non fare impazzire la scrollbar di chi legge. E lo so che non ho messo Sorpasso, Baby Jane, Antonioni, Kubrick, Frankenheimer e Gregory Peck.
L’angelo sterminatore” di Bunuel è sorprendente. Questo regista aveva iniziato molto tempo prima, 33 anni, col corto d’avanguardia “Un cane andaluso”, quello della lametta negli occhi per intenderci. La sua fase surrealista è importante però mi intriga meno. Dopo un lungo periodo di titoli passati in secondo piano, negli anni ’50 comincia a girare film tra virgolette più classici. Il Bunuel degli anni ’60 per me è a livelli eccezionali. Nell’angelo sterminatore c’è un ritrovo con molte persone che bevono e conversano e flirtano e si disprezzano a vicenda. Ogni volta che qualcuno prova a andar via cambia idea, o viene bloccato, o succede qualcosa di strano per cui non riesce. All’inizio nessuno ci fa caso, ma col passare delle ore inizia a montare l’ansia perché è chiaro che sono tutti intrappolati, come in una sorta di incantesimo. Man mano scarseggia il cibo, l’acqua, e la volontà cede: non riescono ad andar via, sono in gabbia, intrappolati. Il titolo, e il motivo per cui questo succede ognuno lo deve capire da solo.
Anna dei miracoli” non ha niente a che vedere con le aureole ma è la storia molto commovente di una ragazza con gravi disabilità e della sua maestra, che sono Patty Duke e Anne Bancroft. Mentre per tutti la ragazza non è che un caso umano da trattare praticamente solo col pietismo, per la Bancroft è un essere umano capace di comprendere e apprendere, che va educato e a cui bisogna dare delle regole per il suo bene. La sfida che ha davanti la Bancroft è tremenda, perché per ottenere pochissimi risultati ci vogliono settimane di lotte. Il film è una grande prova di attrici, entrambe spettacolari. C’è una lunghissima sequenza nella sala da pranzo, quando Patty Duke si rifiuta di mangiare in ordine e la Bancroft si ostina a insegnarle come fare, che ti lascia senza fiato.
L’uomo senza passato” è un film di un regista francese, Bourguignon, con un protagonista tedesco e cioé Hardy Krueger, e una ragazzina talentuosissima, Patricia Gozzi. Hardy è un veterano, che soffre di amnesia in seguito agli choc subiti in guerra, e vive una vita solitaria e malinconica. Un giorno incontra una ragazzina con la quale stringe un rapporto di amicizia. Lei è sola e ha bisogno di una figura paterna, lui è solo e ha bisogno di sentirsi utile e di voler bene a qualcuno. C’è tanta tenerezza in questo film, e malinconia. Per quanto solo a leggere di un’amicizia tra un veterano e una ragazzina molti subito possono pensare a risvolti poco piacevoli, qui non è mai in discussione l’eventualità che possa succedere qualcosa di male alla ragazzina. Kruger è un gran attore che rifiutò anche una nomination ai Golden Globe ai suoi tempi. La Gozzi a mio parere è tra le migliori baby star di sempre. Al suo attivo solo 6 film nei quali però è sempre formidabile.
L’odio esplode a Dallas” è un film di Roger Corman con William Shatner prima che finisse sull’Enterprise. Shatner non è mai stato uno di quei attori per cui ci si strappa i capelli, ma è bello vederlo in un ruolo diverso da quello a cui siamo abituati. Questo film è bello perché ti sorprende, siamo dopo tutto in piena fase di integrazione razziale, che nonostante Rosa Parks o MLK era ben lungi dal verificarsi compiutamente. Questo film ti mostra un lato del razzismo violento e intenso con gli occhi dell’epoca, senza voler fare troppe morali o senza intenti puramente educativi. Qui c’è l’odio razziale, le croci che bruciano, le scuole per soli bianchi, l’incitazione alla violenza. È un film avanti per i suoi tempi.
Il lungo viaggio verso la notte” è un’opera teatrale trasportata al cinema per la gioia di Katharine Hepburn che così poteva avere per le mani pane per i suoi denti. I personaggi sono solo 4, una famiglia che si ritrova e che si rinfaccia le cose, si racconta le cose, si scopre, si allontana e si riavvicina. È uno di quei drammoni familiari in cui quando un personaggio dice qualcosa per ferire gli altri, ti tiri i piedi dall’imbarazzo. Si segue naturalmente volentieri perché i 4 attori sono tutti di primo livello. Oltre alla Hepburn c’è il veterano Ralph Richardson, c’è Jason Robards e c’è Dean Stockwell che era una baby star a fine anni ’40 e che è riuscito ad avere una lunghissima carriera. Nei primi anni ’60 Stockwell sembra quasi il fratello minore di James Dean. Pare che sul set facesse freddissimo per cui Stockwell si aiutava con l’alcool, al che la Hepburn era indignata, ma quando lo venne a sapere gli regalò una coperta.
1963
Sono ben 289 i titoli che ho visto, con 57 a cui ho dato almeno 8. I miei preferiti in assoluto sono 8 e mezzo e gli Uccelli di Hitchcock, ma scrivo 2 righe su altro.
Blow job” di Andy Warhol è una specie di documentario in cui vediamo il volto di un ragazzo e le espressioni che fa mentre fa sesso. I film di Andy Warhol per me sono veramente dei relitti di altri tempi. Certo negli anni ’60 Warhol era uno degli artisti di prima categoria, ma se parliamo dei suoi film e dei suoi documentari, non dei dipinti allora scusate un attimo. Ne ho visti un sacco e sinceramente non me ne importa niente se faccio la figura di chi non ha gusto o e non ne capisce, ma li trovo orribili, una lotta testa a testa con quelli di John Lennon e Yoko Ono, se è per questo. Mi volevo togliere lo sfizio di dirlo.
Il servo” di Losey, invece qui si ragiona, c’è Dirk Bogarde che entra a servizio nella casa di una coppia che ha i suoi alti e bassi. “Sì signore, certo signore, come desidera signore”. Col tempo, studiata bene la situazione e i caratteri dei padroni le cose cominciano a cambiare. “Se proprio crede signore, come meglio crede signore, appena riesco signore”. Più la coppia scoppia più Bogarde inizia ad avere la meglio nel suo braccio di ferro psicologico col padrone e i ruoli fatalmente si invertono. Bogarde si mette bello comodo in poltrona, e che sia il padrone a mettergli le pantofole, adesso. Questo personaggio è rimasto come forse il più memorabile dell’attore inglese prima della fase Visconti.
La ballata del boia” di Berlanga è il film che mi ha fatto dire “ok mi piace Nino Manfredi”. Per me fino a qualche anno fa era solo Mastro Geppetto, non è colpa mia. Invece negli anni ’60 Manfredi incarna l’uomo medio italiano meglio di chiunque altro. Tognazzi era uomo virile e dai grandi appetiti, Gassman era esuberante e pieno di cazzimma, Mastroianni era sensuale e fatalista, invece i ruoli di Manfredi erano quelli di persone che subiscono gli eventi, che subiscono il rapporto di coppia, che devono ingegnarsi per venire a capo delle cose. Era possibile immedesimarsi in Manfredi. In più era dotato di grande talento comico, anche nei ruoli tragici bastavano due espressioni per farti sorridere anche quando gli capitava di tutto, come in questo caso, in cui sposa una giovane il cui padre è un boia e per tradizione tocca al figlio ereditare il mestiere del genitore, quindi da un giorno all’altro Manfredi ora deve svolgere le esecuzioni dei detenuti, anche se non ha il pelo sullo stomaco. Divertente.
I gigli del campo” è uno dei tanti film degli anni ’60 con Sidney Poitier che si afferma come icona culturale assoluta. Questa storia semplice vede Poitier giungere per caso nei pressi di un piccolo convento. La madre superiora convince Poitier a lavorare per loro, hanno intenzione di ristrutturare un po’, ma Poitier aveva ben altri programmi. Alla superiora non interessa un bel niente dei programmi di Poitier perché se è lì, vuol dire che Dio l’ha voluto lì. Ne vengono fuori tanti dialoghi divertenti, Poitier fa la sua espressione come per dire “che pazienza che ci vuole con questa”, la superiora Lilia Skala è bravissima e in tutto ciò Poitier si affeziona alle suore e trova anche il suo scopo nella vita.
Nella prima metà degli anni ’60 la tv era ormai nelle case di tutti gli italiani, i quali amavano gli sceneggiati, Canzonissima, Mike Bongiorno e il telegiornale. Abbondano i documentari che mostrano i vari aspetti dell’Italia del boom, un Italia ancora molto eterogenea ma per questo tanto interessante da raccontare. Si possono trovare in giro tanti documentari come “Fazzoletti di terra” in cui due contadini si costruiscono le loro terrazze per coltivare sollevando una a una delle grosse pietre a mano. Una vita passata a spezzarsi la schiena. Poi ci sono le interviste sui temi d’attualità ad esempio “In Italia si chiama amore”, e i docu geografici che mostrano le costruzioni di dighe, dei tralicci per la corrente, di sopraelevate e autostrade, che io trovo assolutamente affascinanti. Andavano poi i cosiddetti Mondo film, che erano documentari su temi scabrosi, in genere erotismo e pornografia (tipo “Mondo di notte”, ma affrontavano anche altri temi, per esempio era scioccante “Mondo cane”. Per quanto riguarda gli sceneggiati della prima metà degli anni ’60 vanno citati almeno “La cittadella”, “Il mulino del Po” e “una tragedia americana”.
1964
Il 1964 è un altro anno strabiliante per me. Ho visto 372 titoli tra film, corti, documentari, serie tv. Ho dato 8 o più a 65 di questi. Questo è l’anno della famiglia Addams e di Vita da Strega, è quello in cui parte la serie di Angelica e va di moda Sellers, Ursula Andress, Julie Andrews, Louis de Funes e Gianni Morandi. Bette Davis e Joan Crawford si dedicano al mystery con sfumature horror e diventano famose le sorelle Dorleac: una morirà giovanissima, l’altra ancora oggi è conosciuta in tutto il mondo come Catherine Deneuve. Antonioni gira il suo primo e bellissimo film a colori, Connery è alle prese con Goldfinger prima, con la Lollo e con Hitchcock poi, e la rana in Spagna gracida in campagna. Trionfo per i primi spaghetti western e per Leone, emerge la Sandrelli mentre in declino Doris Day. Classico dei classici per Loren-Mastroianni in “Matrimonio all’Italiana”. Insomma un anno di infinite squisitezze.
Seven up!” è un’idea molto interessante: si tratta di documentare la vita di alcuni ragazzi a distanza di 7 anni. Il primo documentario esce quindi nel 1964, il secondo poi nel 1970 (14 anni), poi 1977 (21), 1984 (28), 1991 (35), 1998 (42), 2005 (49), 2012 (56) e 2019 (63 up). Con la regia di Apted, attraverso le interviste vediamo cosa è successo nelle vite di queste persone.
La caccia” di Manoel de Oliveira regista portoghese morto a 106 anni, è un corto in cui due amici decidono appunto di andare a caccia, ma senza fucili, così niente di male può succedere. Quando si dice il caso: uno finisce nelle sabbie mobili, e sta all’altro amico escogitare il modo per salvarlo.
La donna di sabbia” di Hiroshi Teshigahara è un Thriller nel quale un entomologo va a caccia di insetti in una zona desertica e finisce in una fossa nella quale c’è una capanna con una donna, che trascorre la vita a spalare sabbia, come in un supplizio di Tantalo, ogni santo giorno, per evitare di essere sepolta. L’entomologo è stato intrappolato lì affinché possa contribuire al lavoro della donna e trascorrere con lei il resto della vita. Come un insetto in trappola, l’uomo cerca in tutti i modi di scappare.
“L’uomo del banco dei pegni” è un film di Lumet con Rod Steiger, due garanzie insomma. C’è un ebreo che lavora in un banco dei pegni. Trascorre la sua vita a valutare gli oggetti che gli porta la gente, privato ormai di ogni emozione. Il suo giovane commesso non è niente per lui, i suoi clienti non sono niente per lui. Osserva gli oggetti, li stima al ribasso, ci mette l’etichetta e così passa la giornata. C’è una donna che prova a mostrargli segnali d’affetto: non è niente per lui. Quest’uomo respira, ma non è vivo. Pare che fosse uno dei ruoli preferiti da Steiger, attore dalle scelte molto coraggiose che negli anni ’60 spesso lavora con registi italiani, anche in piccole produzioni. Il film è pieno di sentimenti da scavare in profondità, che esplodono con violenza nella parte finale.
Zorba il greco” è l’amicizia improbabile tra Anthony Quinn e Alan Bates. Quinn è Zorba, che non ha paura di niente e si butta a capofitto nella vita e nelle esperienze. A lui la gente piace, ci parla, ci ride e ci beve, si fa anche i fatti degli altri ma è generoso se serve, e comunque manda avanti la sua vita. È estroverso al 100% ed è un personaggio interessante interpretato magnificamente da Anthony Quinn, attore dalla lunga carriera. Alan Bates è gentile, preciso, riservato, discreto, riflessivo. Non si lancia, chiede permesso, è un tantino represso ma è un buon amico e una brava persona. Quinn adotta Bates e gli cambia la vita. Finiscono per conoscere una donna sola che è Lila Kedrova, che vive nel passsato. Mostra le gambe, si veste coi pizzi, finge una felicità che non possiede più, si comporta da adolescente. La Kedrova cerca ancora la vita e Quinn la accontenta. Questi personaggi così diversi raccontano una storia interessante. Memorabile la morte della Kedrova, con le vecchie del paese che vanno a saccheggiare la casa. Bates è uno degli attori più sottovalutati degli anni ’60 e ’70.
Un giorno di terrore” è il titolo italiano di “Lady in a cage”, che forse è meglio, si tratta di Olivia de Havilland, che è una scrittrice che ha avuto un incidente e quindi è costretta temporaneamente alla sedia a rotelle, quindi si muove nella sua bella casa grazie a un ascensore che la porta dal piano delle camere al soggiorno e alla cucina. Il figlio va via per il fine settimana, ma represso dalla madre ha propositi suicidi, ebbene Olivia resta sola in casa. Purtroppo per lei va via la corrente quando l’ascensore è a metà, e così resta sospesa. Salire non può, scendere non può, saltare nemmeno, arrampicarsi non se ne parla. Suona l’allarme, ma nessuno sente. Non esistevano mica gli smartphone, qui si rischia di restare in ascensore molto, molto a lungo. Succede quindi che un ubriacone entra in casa e sotto gli occhi impotenti della de Havilland pensa bene di accumulare un po’ di refurtiva. Non contento, va a chiamare altri suoi amici, più delinquenti e spregevoli che mai. Capitanati da James Caan, questi teppisti metteranno a ferro e fuoco la casa della de Havilland che guarda impotente quello che accade. Bellissimo e dimenticato titolo che vale la pena riscoprire in onore della mega star di recente morta alla bella età di 104 anni.
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Di come un tassista bulgaro mi salvò la pellaccia [Parte 1 di 3]

[L’itinerario che seguirò in questo breve racconto non sarà precisamente quello che feci all’epoca, cercherò di essere stringato e di seguire solamente le tappe principali di quel viaggio che mi cambiò la vita, per amor di sintesi salterò diversi paesini e particolari. Le tappe saranno: Trieste - Zagabria - Sarajevo - Belgrado - Sighetu Marmației - Sofia - Istanbul - Kulata - Salonicco - Atene - Patrasso - Ancona]
Avevo compiuto da poco 20 anni quando decisi che quell’estate avrei visitato tutti quei paesi che negli scorsi anni non avevo avuto modo di visitare. I soldi c’erano, non moltissimi, ma a sufficienza per tanti spostamenti, avevo calcolato parecchie notti in tenda e in treno, avevo due o tre contatti in Romania e a Belgrado, e l’unica cosa di cui ero certo è che sarei partito da Trieste a Giugno, per il resto sapevo solo che volevo scoprire quanto più possibile dell’est Europa. L’idea del budget me la feci studiando le tratte e i cambi di moneta, feci la somma di tutte le tratte in treno che avrei dovuto fare, comparai con bus e mi informai su internet in merito agli autostop, mi calcolai non più di 15€ al giorno per mangiare, e consideravo che in posti come il Maramureș ne bastano anche 4€. Sebbene i tanti calcoli che comprendevano anche un possibile traghetto finale rimasi comunque a corto di soldi negli ultimi giorni, rischiando pure di rimanere bloccato al confine tra Bulgaria e Grecia.
Comincio col dire che non sono di Trieste, per essere esatti all’epoca vivevo a poco più di 400 km dalla città, ma c’era più di un motivo per partire da lì: conoscevo un posto dove poter dormire senza pagare, per caso c’era in centro un mio carissimo amico ad aspettarmi, e poi Trieste è bellissima. Un po’ di autobus un po’ di autostop e arrivai in città cercando subito il posto dove mi sarei sistemato per la notte, era una scuola gestita dai Gesuiti dove partivano molte missioni umanitarie. Non ricordo benissimo l’ubicazione ma se dovessi tornare a Trieste credo ritroverei quel posto, era relativamente vicino al giardino Muzio de Tommasini, salendo per via Fabio Severo, poco prima dell’Università. Giuseppe era piuttosto esperto di viaggi verso l’est, all’epoca era nella Lega Missionaria Studenti, un gruppo di fanatici attivisti religiosi che non mi andavano per nulla a genio, ma Giuseppe era diverso, lui non era con quelle persone perché smosso da chissà quale impeto moral-religioso, macché, lui era lì tutte le estati per un semplice motivo: la fica. Certo, era bello aiutare gli anziani e gli orfanelli, ma anche sbatterglielo in culo alle giovani purissime missionarie era per lui motivo d’orgoglio. Quella notte fu impossibile dormire a causa del pavimento della scuola, butterato e con diversi strati di polvere, avrei dovuto comprare un materassino più solido per il sacco a pelo, ma all’epoca avevo paura a caricarmi troppe cose, avevo l’idea che se avessi cominciato con i materassi di lusso e i cuscini a prova di fulmine mi sarei presto ritrovato a scarrozzarmi comodini, sveglie meccaniche, forni a microonde e impianti hi-fi. Ero un coglione. Così forzai Giuseppe a passare la notte per le strade di Trieste, dove inscenammo un finto litigio al giardino lì vicino.
[N.d.A: questo è un nostro cavallo di battaglia, lo chiamiamo semplicemente “Alice”. “Alice” in pratica è un esercizio d’improvvisazione teatrale di nostra invenzione, quando uno dei due chiede all’altro: «Ma come sta Alice?» è il segno che si vuole cominciare, è regola che non ci si possa sottrarre alla sfida indipendentemente dal contesto. L’idea è che chi ha chiesto per primo come sta Alice sia anche interessato romanticamente alla suddetta, mentre chi risponde deve costantemente sviare oppure parlare di altre Alice confondendo il più possibile l’interessato. Più volte, dopo un’escalation di equivoci e battibecchi, abbiamo finito urlandoci l’uno contro l’altro per poi, dopo pochi passi di sfida, abbracciarci solennemente, tra gli applausi oppure lo sconcerto generale. L’ultima volta che è successo è stato tre anni fa, lo presi parecchio di contropiede, anche perché ero testimone al suo Matrimonio.]
Senza aver quindi dormito partii per la Croazia, dove restai qualche giorno nei dintorni di Zagabria. Una cosa che notai subito fu la furia assassina con la quale gli autisti dei bus croati viaggiavano, temevo per la mia vita ad ogni sorpasso, l’autista per le curve seguiva la traiettoria di una Formula 1 all’ultimo giro utile di qualificazione. Il paesaggio sloveno che superai lo conoscevo già, avendo tempo addietro sostato a Maribor, una bellissima città fiorita sul Drava. L’ostello che trovai vicino alla stazione centrale costava poco e nei dintorni c’erano molte zone dove ci si poteva accampare, d’estate per fortuna viaggia molta gente per cui non si era mai davvero soli. In città mi feci fare un cappello da un artigiano, il mio pessimo slavo e il suo terribile italiano non furono particolarmente d’impaccio. Ebbi in quei soleggiati giorni l’occasione di visitare il Museo d’arte Moderna, rimanendo impressionato non tanto dal Liberty croato (di grande pregio e dalle magnifiche intuizioni cromatiche, un continuo scontro tra paesaggi algidi e freddi e intarsiature dorate) quanto dall’incredibile catalogo di artisti avanguardisti. Poter vedere le opere di Anto Jerković dal vivo mi ha fatto molto riflettere sulla qualità dell’Informale europeo, sulla diversità degli stili e l’influenza immensa di van Gogh e Yves Klein sull’arte pittorica contemporanea [anche se, a onor del vero, il più originale interprete di Klein per me resta il californiano Don Van Vliet]. Una sera che ero per la Ulica Ivana Tkalčića, mi misi ad ascoltare una band garage in uno dei tanti locali della via, feci velocemente amicizia con una coppia e parlammo tutta la notte de Le ballate di Petrica Kerempuh mentre io ero reduce dall’apocalisse grammaticale di Viaggio al termine della notte. Céline mi accompagnava in quei giorni, quando non disegnavo sul mio taccuino lo leggevo avidamente, prendendo appunti come faccio sempre a bordo pagina, sconfinando nei paesaggi di una Francia oscena e decadente mentre attorno a me i giovani sembravano aver dimenticato il suono delle bombe di un decennio fa.
Partì per Sarajevo che era giorno, prendere i treni-notte mi sembrò una grande idea per diversi motivi: il primo era che costavano poco e mentre ti spostavi potevi dormire, il secondo era che essendo estate erano tanti i giovani che facevano Interrail o robe così, il solito discorso, meglio stare sempre in compagnia. Peccato che a discapito della mia geniale intuizione quasi tutti i viaggi su rotaia si rivelarono dei pandemoni hippie, dove la gente beveva e fumava tutta la notte gozzovigliando al suono della peggior musica balcanica. Per carità, sempre meglio dei Modena City Ramblers, ma comunque uno stupro per le mie orecchie all’epoca dedicate al dolce suono dei Minutemen e di Iannis Xenakis. In quel viaggio per Sarajevo mi ritrovai in cabina con un gruppo di francesi veramente molesti. A parte il continuo far casino, che potevo benissimo capire, era lo “stile” a destarmi irritazione. Giocavano a orribili giochi di società per smartphone, di quelli dove devi riconoscere il marchio famoso e scriverne il nome o boiate simili. Nessuno di loro, fra l’altro, aveva la benché minima idea di chi fosse Luis-Ferdinand Céline. Beh, ero uno snob di merda, portate pazienza, avevo anche appena 20 anni, oggi probabilmente romperei meno i coglioni e giocherei con loro. La notte tentai di dormire ma non servì a molto, perché appena mi addormentai ci fermarono alla dogana. Fu un viaggio tosto, passai molto tempo nel corridoio mentre la notte ingoiava ogni residuo stellare, ballavo, pisciavo nel lavandino (il cesso era intasato di lattine di birra), pensavo a com’era bello il mio cappello artigianale e a quanto fossero grandi i corvi croati.
Una delle prime cose che imparai della Bosnia ed Erzegovina è che “barbiere” si scrive “Freezer” e questo mi faceva ridere da matti. Arrivati alla stazione di Sarajevo ero a pezzi e pieno di rancore per i francesi scassa-balle, erano le 4 e mezza del mattino e non c’era anima viva, se non un tipo piuttosto giovane e pelato che mi venne subito incontro chiedendomi in un buon inglese se avevo già dove dormire in città. Allora ragazzi: non fidatevi mai di gente che aspetta i turisti alle stazioni, se vi va di culo finite come tra poco vi racconterò, se vi va male… vi va male. Comunque io ero cotto e avevo bisogno di un giaciglio vero, per cui accettai la sua offerta di portarmi al suo “ostello”. Mentre eravamo in auto il tipo ricevette una telefonata, capii che mi riguardava ma non riuscivo a decifrarne il contenuto. Ad un certo punto il tipo mi guardò e mi disse che c’era un problema: gli sono rimaste due camere ma siamo troppi maschi e ci sono due ragazze, la sua collega ha infatti intercettato dal mio stesso treno un gruppo di cinque francesi. Considerando di aver ballato e bevuto per tutta la lunghezza del treno sapevo benissimo che l’unica comitiva di testosteroni francesi non poteva che essere la mia. Insomma, dice il tipo, qualcuno deve dormire con le ragazze olandesi che sono già in ostello, mentre gli altri andranno in camera con due anziani. Indovinate quindi con chi feci andare i francesi. L’ostello non era tale, o meglio, era un luogo con quattro pareti e un soffitto, ma era osceno. Era tutto in cemento vivo, non sembrava nemmeno finita la struttura con tutte le armature in ferro ben visibili e arrugginite. Il pavimento della camera che dividevo con le olandesi era spaccato e in salita. La mia prima mattina in quel posto resta una delle mie sveglie più assurde ed improbabili. Seduti su una sorta di terrazza che sembrava stare in piedi con lo sputo ci siamo io e le olandesi a mangiare una buona colazione portata dal proprietario, ma quando si presentano i francesi non riesco più a mangiare. Arrivano, tutti pallidi e visibilmente stanchi, assieme ai loro due compagni di camera: due stravecchi raggrinziti vestiti (non sto scherzando) da gendarmi nazisti, con tanto di fascia al braccio. Decisi in quel momento che non mi andava di passare troppo tempo in ostello.
Sarajevo è una città straziante, sotto il suo strato di cemento e polvere si celano le nevrosi e le tragedie di troppe guerre e conflitti. Visitai poco la parte turistica della città e dedicai parecchio tempo alle periferie e ai borghi a causa del loro fascino umano. Visitai anche le città limitrofe, scoprendo diverse bellezze del paese. Una sera, passeggiando, con la coda dell’occhio vidi un uomo disteso malamente su una scalinata. Pensai fosse morto o robe così, e andai a controllare se era il caso di chiamare aiuto. Il tizio era grosso e puzzava di alcol, respirava pesantemente e provai ad alzarlo. Mi ci volle un po’ ma lo misi a sedere. L’uomo, cominciò a raccontarmi in un buon italiano, aveva lavorato da giovane a Firenze dove aveva passato i migliori anni della sua vita, come un classico immigrato in cerca di fortuna. Tornava poco nel suo paese, ma abbastanza per farsi una famiglia. Purtroppo la distanza e la sua voglia di viaggiare non furono un sufficiente collante, e ora da qualche mese cercava di riallacciare con la sua unica figlia, inutilmente. Era caduto in depressione e non faceva altro che bere. Lo riaccompagnai a casa, un piccolo appartamento di periferia, bianco fuori e con delle orribili luci verdi all’interno. I muri sembravano di cartapesta, pieni di crepe dalle quali sbucavano fuori insetti di ogni forma. C’erano parecchie bottiglie a giro e DVD di film italiani, tra cui Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi. Come per Giovanni delle Bande Nere anche per il mio nuovo amico sembrava non ci fosse molta speranza, era tornato a casa per ritrovare la famiglia, ma sua moglie l’ha rinnegato e la figlia non voleva parlarci. Non bevvi quello che mi offrì, e parlammo fino a notte inoltrata, prima di salutarci per sempre.
In un altro vicolo della città in cui mi persi in quei giorni plumbei venni attratto da dei rumori curiosi, come di vecchie VHS. Girando un sudicio angolo scoprii questo posto che sembrava strappato dalla realtà circostante. Era una sorta di pub collassato su se stesso, pieno zeppo in ogni centimetro di vecchissimi mobilii, cornici, set di tazze e tazzine, lampadari di ogni genere e non tutti appesi al soffitto che ne era comunque saturo, tutto sembrava dorato e riflettente, specchi arrugginiti e deformanti, sedie di ogni dimensione e colore, tutte antiche, come anche i tavolini e il bancone. Ma la cosa più strana era la presenza di decine di vecchi televisori, tutti accesi, dove delle videocassette mandavano scene della vecchia Sarajevo. Ero stordito e ammaliato da tutto questo. Nero, così si faceva chiamare il proprietario, era piuttosto giovane, mi spiegò che era figlio della più famosa coppia di antiquari della città. Lui non aveva mai vissuto molto a Sarajevo, era infatti un viaggiatore anch’egli, pieno di aneddoti spassosissimi resi ancora più ilari dai buonissimi rum che continuava a versarmi. Purtroppo i suoi genitori vennero a mancare l’anno prima, e così si ritrovò con garage e garage pieni delle cose più strane e improponibili. Decise quindi di trasformare il vecchio negozio dei suoi genitori in un locale dei più eccentrici mai visti. Dopo qualche ora s’era fatta una certa e io avevo fame e chiesi a Nero quale fosse la miglior baracca della zona dove rifocillarsi a dovere, lui mi indicò la porta esattamente di fronte al suo locale. Gli dissi che non mi andava di mangiare a casa di qualcuno, preferivo un locale o comunque un postaccio dove poter degustare qualche specialità. Allora mi prese per mano e mi portò al portone, bussò e ci aprì un cameriere. Ok, allora è un ristorante, senza insegna ma ok. Alla vista di Nero il cameriere iniziò a tirare fuori tavolini e sedie, apparecchiando in mezzo alla stradina, dopo poco mi prende e mi fa entrare in quello che chiaramente è l’androne di un normalissimo condominio, scendiamo delle scale a chiocciola che, normalmente, porterebbero ad uno scantinato, e dove invece risiedeva una piccola ma ordinatissima e pulitissima cucina. C’era un cuoco e il suo sous-chef, stavano preparando cose inimmaginabili per il mio limitato olfatto. Mi chiese cosa mi andava di mangiare e io gli dissi che mi fidavo pienamente di qualsiasi roba potesse uscire fuori da quello sgabuzzino. Feci strabene. Mi portarono quello che, ad oggi, è il più buono, tenero, burroso e gustoso filet mignon al pepe verde che abbia mai divorato. Quella cena me la pagò Nero di soppiatto, costringendomi moralmente a tornare la sera dopo accompagnato dalle due olandesi che letteralmente impazzirono per il posto. Vorrei tanto ricordarmi di preciso dove fosse ‘sto locale, ricordo solo che era una traversina di una parallela di Mula Mustafe Bašeskije, nient’altro.
Un’altra cosa che mi colpì molto della città fu la famosa piazza Baščaršija su cui si affacciavano rispettivamente una moschea e una chiesa ortodossa. Mi sporsi alla moschea e potei seguire tutta la funzione. Le enormi scritte sui muri dipinte su dei semplici tendaggi mi ricordarono quanto la Parola per gli ebrei e gli islamici abbia un valore diverso e catartico, i cristiani infatti credono che il Verbo si sia fatto Carne, ed in questo Cristo rappresenta il tramite per il divino, non più Profeti ma direttamente la Parola che respira come noi. Nella moschea invece la Parola prendeva forme e colori diversi ma rimaneva Parola, e anche se salmodiata con ipnotica intensità si poteva avvertire tutto il suo peso morale. Oggi, studiando sopratutto testi del buddismo c’han e dello zen giapponese che ne deriva, scorgo ancora più malinconia in quelle religioni che si appigliano alla Parola con strenua fedeltà. La paura e la povertà fanno prosperare le religioni, che serpeggiano tra tappeti, sedie e simulacri, s’aggrappano alla mortalità e promettono una fine alle sofferenze. È una vita sacrificata sull’altare della morte.
Quando arrivai a Sarajevo avevo in mente un preciso itinerario, ma decisi di sostare in Serbia prima di andare in Romania, anche se mi era stato sconsigliato da Giuseppe mentre ero a Trieste. Presi un altro treno notturno assieme alle due ragazze olandesi che bevvero vodka per tutto il tragitto. Quando mi svegliai il paesaggio era cambiato drasticamente: villaggi ridotti ad una fatiscente miseria si accavallavano uno dietro l’altro mentre ci avvicinavamo a Belgrado. Ricordo che l’aria era torbida e colorata di un pesante ocra.
[FINE PRIMA PARTE, scusatemi ma sono un po’ stanco di scrivere! Mi scuso per ogni eventuale errore grammaticale e per la scarsa chiarezza della prosa ma non sono abituato a scrivere di getto. Domani, sempre che interessi, butterò giù del resto del viaggio, ma temo ci vorrà una terza parte per concluderlo.]
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Real Life Soap Opera - Episodio VI: Tanto gentile e tanto onesta pare

ep I, ep II, ep III, ep IV, ep V
riassunto della puntata precedente Nonostante l’intromissione della bionda Renzo e Lucia hanno amoreggiato tuta la sera e solo uno scoppio di pianto di Gertrude ha impedito ai due di concludere la serata in bellezza. Entrambi sembrano dimostrare sincero interesse l’uno per l’altra. Renzo è quindi molto sorpreso quando scopre che Lucia ha chiuso ogni contatto con lui bloccandolo al telefono.
Episodio V: Tanto gentile e tanto onesta pare
Renzo è sorpreso, è amareggiato, è perplesso. Cosa avrà mai fatto di male stavolta? Cosa avrò detto inavvertitamente che possa aver causato la rabbia di Lucia? ripercorre mentalmente la serata passata ma non riesce a trovare niente che possa aver offeso nessuno o dato adito a interpretazioni strane.
Sarà l’eccesso di emozioni, sarà lo stato d’animo miserevole in cui si trova, saranno state le birre, la mancanza di sonno… Renzo sta malissimo. Febbre, dolori ovunque, una debolezza tremenda. Gli antibiotici che sta prendendo servono solo come profilassi contro problemi secondari e peggiorano solo la situazione. Insomma, una forte influenza, da manuale.
L’enigma di Lucia passa in secondo piano mentre Renzo è costretto a letto. la sua mente obnubilata non è di certo in condizioni tali da permettergli di schiarirsi le idee, e così giace, tormentato dai dubbi e dalla febbre, per due giorni interi.
il terzo giorno, come da tradizione, decide di sentirsi abbastanza bene da uscire.
Niente di nuovo sul fronte occidentale. Renzo non ha più provato a contattare Lucia, un po’ perchè ha paura di peggiorare la situazione, un po’ perchè non gli è ben chiaro se lei sia ritardata o che e non saprebbe nemmeno cosa dirle.
Renzo odia lo shopping. Odia le folle, odia le orde di turisti che sciamano per il centro durante le feste, odia i mercatini di Natale, odia le musichette festive, e odia il fatto di non potersi godere la bellezza dei viali e delle piazze per dover fare lo slalom tra mandrie di turisti giapponesi, la gente che si fa i selfie e le ragazzine obese che campeggiano davanti ai negozi di accessori. Ciononostante, ultimamente ha freddo ai piedi e deve comprarsi un paio di scarpe più calde.
Il piano è semplice e ben rodato: 15 minuti di metropolitana fino al centro, 3 minuti per raggiungere il solito negozio di abbigliamento, 10 minuti per pescare un paio di scarpe da tennis qualsiasi e indietro. totale stimato: un’ora.
Tutto fila alla perfezione. A tredici anni Renzo andava in giro con le Stan Smith e lo prendevano per il culo perchè erano da vecchi. adesso sono tornate di moda e costano uno sproposito. la scelta ricade quindi su un paio di “scarpe-da-tennis-bianche-generiche” che sono uguali e costano la metà.
E’ il 30 Dicembre e dentro al negozio c’è sorprendentemente poca gente. Renzo paga e nota con soddisfazione che sono passati esattamente 45 minuti da quando è uscito di casa. perfetto.
Esce sul marciapiede e incontra Lucia.
Lei lo fissa con un’espressione allarmata. Renzo ha probabilmente la bocca aperta come un idiota. I due rimangono interdetti qualche secondo e poi scoppiano a ridere in contemporanea.
PUBBLICITA’ in un episodio da orribile commedia rosa all’italiana, le pubblicità hanno come target la demografica che tipicamente guarda questa robaccia. ovviamente io non sono la casalinga di voghera, quindi non ho idea di cosa possano reclamizzare… scope elettriche? mastro lindo? boh
Forse questa coincidenza incredibile è un segno del destino? Viene fuori che a Lucia piace molto il centro della città e che, essendo una bella giornata, stava semplicemente passeggiando e guardandosi intorno.
Dopo i dovuti saluti e convenevoli i due si spostano verso la piazza dove c’è un po’ di spazio e un po’ di sole. Lucia spiega subito a Renzo come mai ha deciso di bloccarlo come una quattordicenne offesa.
Anche lei l’altra sera si è divertita un sacco, e anche Gertrude. Renzo le piace molto e trova che Tonio sia molto simpatico. Si è resa conto di aver esagerato tremendamente con Renzo e si scusa per essersi comportata così. Teme di non riuscire a controllarsi e di fare qualche altro errore che metterebbe a repentaglio la sua relazione con Don Rodrigo, e per questo motivo aveva deciso di troncare ogni contatto. Si rende conto di averlo fatto in un modo maleducato e si scusa, avrebbe sicuramente ricontattato Renzo per spiegarsi ma aveva bisogno di un po’ di tempo.
Insomma, un patema interminabile per dire che, causa Don Rodrigo, non vuole aver niente a che fare con Renzo.
La posizione di Lucia ha anche senso e sarebbe anche comprensibile, quello che la rende però poco credibile è che mentre spiega queste cose, i due stanno ormai vagando da una mezz’ora buona e lei comincia a distrarsi con le vetrine, i mercatini e qualche bello scorcio del centro, ed ecco che in un attimo è passata dallo spiegare il suo grave problema morale a passeggiare con Renzo sotto braccio
Sarà l’atmosfera festiva, ma in breve tempo Lucia sembra aver dimenticato Don Rodrigo e tutti i suoi problemi. Ripartono i soliti violini: Lucia convince Renzo a entrare nei negozi, gli fa provare roba, lo fa passare per i mercatini di natale, lo fa passeggiare amabilmente per quelle stesse vie che lui solitamente evita come la peste perchè sono piene di stronzi che passeggiano lentamente e non si riesce a camminare al passo giusto.
è diventato uno di loro.
Il povero Renzo è una persona introversa, cinica e riflessiva. Messo davanti a una ragazza energica ed entusiasta come Lucia non ha la minima speranza di stare al suo ritmo: lei fa, disfa, parla, guarda una cosa, poi un’altra, ride, scherza, si entusiasma di tutto e di tutto si dimentica dopo 30 secondi. In confronto a Renzo sembra fatta di cocaina.
Lui segue, anzi arranca. Non conta un cazzo. E’ sempre lì lì per tirare fuori un’obiezione: ma non hai mica appena detto tutta quella roba di Don Rodrigo, e che ti senti in colpa, e che non vuoi fare errori eccetra eccetra? sei ritardata? ti svegli?. Ovviamente non ci riesce.
Il colpo di grazie gli arriva quando Lucia, additando della biancheria sexy in una vetrina, ride come una bambina e gli chiede se secondo lui le starebbe bene. Come al solito si sente un metaforico scoppiettio e un metaforico odore di bruciato. gli si spegne il cervello e perde ogni resistenza. ogni obiezione evapora come neve al sole.
Dopo aver girato chiacchierando per tutto il pomeriggio e aver condiviso un enorme cono di carta pieno di patatine fritte bollenti i due stanno gravitando non lontano da casa di Lucia, quando lei lo invita a salire per un caffè. Renzo ormai non capisce più niente e la segue come in trance, senza nemmeno chiedersi più cosa stia succedendo.
Lui, in quanto italiano, è addetto a fare il caffè. Lei taglia fette di panettone. Il caffè non è ancora uscito dalla caffettiera che Lucia ha un raptus improvviso: per favore vai via.
Renzo esita, per il semplice motivo che gli ci vuole un attimo per processare gli eventi. Lucia diventa immediatamente nervosa, alza la voce e le viene da piangere. Butta lì delle frasi sconnesse in mezzo spagnolo e mezzo inglese, dice che sta sbagliando e si sente in colpa. adesso? dopo tutto ‘sto casino impazzisci mentre stiamo bevendo un caffè??
Renzo viene scacciato di casa in malo modo senza riuscire nemmeno a chiederle che droghe usa. Per l’ennesima volta si ritrova sotto casa di lei senza sapere bene cosa sia appena successo.
Cinque minuti dopo, mentre sta prendendo la metropolitana per tornare a casa, suona il telefono. E’ incazzato come una biscia, non risponde.
Fine dell’episodio VI
messa per iscritto ‘sta storia sembra sempre più un dramma adolescenziale. ricordo, giusto per aggiungere alla demenzialità della cosa, che Lucia ha 25 anni e Renzo va per i 28.
le coincidenze, i patemi, i colpi di scena improvvisi che sembrano inventati da un dodicenne sono esattamente il motivo per cui mi hanno suggerito (è stato Bortolo, posso dirlo) di farne una soap.
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Real Life Soap Opera - Episodio X: Parigi val bene una messa

ci avviciniamo alla fine della storia… probabilmente questo sarà il penultimo episodio.
ep I, ep II, ep III, ep IV, ep V, ep VI, ep VII, ep VIII ep IX
riassunto della puntata precedente: Lucia è stata cazziata da quella ficcanaso di Gertrude per la sua relazione clandestina con Renzo. Lui e Lucia inizialmente decidono di interromperla, ma subito dopo ci ricascano. Incombono poi diversi problemi: da una parte i sensi di colpa altalenanti di Lucia che minacciano di far esplodere tutto, dall’altra la sua insistenza nel cercare di tirarlo dentro a quella che sembra sempre di più una sinistra setta religiosa.
Episodio X: Parigi val bene una Messa
in questo periodo Renzo cerca di barcamenarsi tra tutte le incognite di questa storia incasinata. Frequenta Lucia senza sapere bene cosa fare sul lungo termine, cerca da una parte di evadere i suoi pressing religiosi e dall’altra di ottenere più informazioni a riguardo, e viene impietosamente preso per il culo da chiunque.
Infatti, Tonio e Bortolo sanno tutta la storia, e con loro tutti i colleghi e gli amici di Renzo. Il poveretto lavora in un open space con dentro un centinaio di persone della sua età e le storie girano, soprattutto quando sono fantozziane quanto questa.
Ora ogni volta che entra in ufficio viene accolto da innumerevoli allora Renzo quand’è che si va a messa?, come sta Pinochet? (appellativo per Lucia nato da un’incomprensione circa la sua nazionalità, e rimasto), è passato un sudamericano incazzato che ti cercava… e così via.
Un po’ per gioco e un po’ no, Renzo, Bortolo e una collega stanno cercando di mettere insieme i pezzetti di informazione che Lucia ha dato per capire quale sia effettivamente la setta a cui lei appartiene. Le informazioni in realtà sono molto poche, ma qualcosa Renzo è riuscito a farselo dire: Lucia ha detto di essere protestante, il che restringe leggermente il campo, Renzo sa anche gli orari degli appuntamenti fissi di lei, e vagamente i posti in cui lei e gli altri accoliti si ritrovano.
Con questi dati e un bel po’ di ricerche tra google e social network vari, i tre restringono il campo a due associazioni che sembrano semi-religiose: una è una robaccia new age di self-improvement americana tipo scientology che sembra fondamentalmente uno scam per farsi dare dei soldi, l’altra è un movimento di massa nato in Australia, che stando a internet riempie interi stadi e ha sedi in tutto il mondo. Entrambe le associazioni hanno riunioni settimanali e appuntamenti fissi la domenica negli orari giusti. Nessuna delle due sembra una pista troppo promettente.
Da parte sua, Lucia sta finendo i suoi corsi di Italiano e le pratiche per la nazionalità. La burocrazia italiana è nota per essere farraginosa, ma lei ci ha messo del suo: quando è arrivata in Italia infatti, per risparmiare, è andata a vivere in un paesucolo inutile di 1500 abitanti in una provincia vicina, presso una lontana conoscente della sua famiglia, che sarà d’ora in poi L’Innominato.
L’Innominato si è rivelata poi essere una persona orribile, con dei disturbi mentali non indifferenti, che maltrattava Lucia, la minacciava quando tornava a casa in ritardo, le impediva di uscire di casa e così via. Lucia è quindi praticamente fuggita dalla casa dell’Innominato per venire a vivere a Milano.
Il problema è che aveva iniziato l’iter burocratico mentre risiedeva a Roccaminchiona, e quindi risulta ancora legalmente risiedente là, e questo noon può essere cambiato. La sua pratica è seguita da un’impiegata del comune di Roccaminchiona, gentile ma non troppo brillante, che prenderà il nome di Azzeccagarbugli. Senza far scoprire all’Azzeccagarbugli che ormai sta a Milano, Lucia si deve recare regolarmente nel paesello per fare le pratiche. In contemporanea deve tenere buono l’Innominato che, agli occhi della legge, è garante del fatto che Lucia risiede sempre là.
Gertrude non si è più lamentata, forse pacificata da qualche finta rassicurazione di Lucia, forse rassegnata all’inevitabile.
Renzo e Lucia continuano con la loro frequentazione low-profile e le loro gite fuori città. è dopo l’ennesima di queste che succede il fattaccio.
PUBBLICITA’ non guardo la TV da anni e non ce l’ho nemmeno in casa. ho finito le idee. Di conseguenza l’inserzionista di oggi sarà una roba vecchissima che ricordo dalla mia infanzia: la Fabbrica Dei Mostri. Un’atroce fornetto elettrico che permette di sciogliere delle plastiche probabilmente tossiche, versarle in stampini di piombo e produrre così insetti, vermi e animaletti vari colorati. Come facessimo a divertirci con quella roba rimane un MISTERO.
Siamo arrivati ad un weekend di fine Febbraio, Renzo e Lucia hanno passato il sabato mattina a vedere un museo, il sabato pomeriggio da lei, e la domenica a visitare una cittadina d’arte a un paio d’ore da Milano. Il giorno successivo, Lunedì, Renzo chiama Lucia all’uscita dal lavoro, come consuetudine, per fare due chiacchiere e decidere se vedersi o meno la sera.
Lucia risponde in lacrime. è successo un casino, non possiamo più parlarci. Renzo riesce in qualche maniera a tranquillizzarla e a farsi dare una spiegazione: è successo che Lucia ha postato su qualche social network una foto della loro gitarella del giorno precedente. Don Rodrigo ha visto la foto sul social e, nonostante Renzo non fosse inquadrato, si è insospettito. Ha cominciato a fare domande sempre più insistenti a Lucia su dove fosse andata, con chi e così via, finchè lei non ha ceduto e ha mezzo confessato di ”aver conosciuto qualcuno con cui si trova molto bene” (Sic).
Comprensibilmente Don Rodrigo si è incazzato e ha minacciato Lucia di mollarla, il che ha scatenato un litigio tra i due.
Renzo è stanco, stressato dal lavoro e stufo di questo continuo tira-e-molla alla Charlie Brown. Dice chiaramente a Lucia che, se lei vuole evitare di creare problemi alla sua relazione con Don Rodrigo, allora la devono smettere davvero di vedersi e sentirsi. Si scusa per non esserci riuscito la prima volta e promette di non disturbarla più. Chiude la conversazione e spegne il telefono.
Questa volta niente musica triste sulla scena di lui che torna a casa: è più incazzato che dispiaciuto. Le immagini sono solo accompagnate dai rumori freddi e impersonali della metropolitana e della pioggia battente.
Bortolo scommette che ricominceranno a sentirsi dopo tre giorni, l’altra collega dice una settimana.
In realtà di giorni ne passano due, ma Lucia si muove da una direzione completamente inaspettata: senza particolari preamboli chiede a Renzo, in modo quasi supplichevole, di andare in chiesa con lei la domenica seguente. Dice che per lei è molto importante e vorrebbe che andassero insieme.
Quando Renzo le chiede diobuono non mi hai mica detto che non dobbiamo più cagarci puttana la miseria, lei risponde di stare tranquillo e che ha sistemato: ho parlato con Don Rodrigo ed è tutto ok.
Renzo non sta più capendo. è tutto ok cosa? cambiare idea ogni sei secondi? avere l’amante? andarci in chiesa? La scena di Renzo sorpreso e perplesso da queste parole deliranti è accompagnata dalle note psichedeliche di Brain Damage.
Mentre Renzo sta ancora processando e non sa come rispondere Lucia gli manda i dettagli dell’ipotetico appuntamento. Colpo di scena! E’ la setta degli australiani.
Stando a google si tratta di una megachurch pentecostale (checchè significhi) con più di ottanta sedi nel mondo, centocinquantamila presenze alla settimana, piena di soldi. è’ nata da due predicatori di Sydney, ha un sito fichissimo e una serie di scandali finanziari, sessuali e politici alle spalle.
Ogni settimana organizza un “incontro” in un teatro lussuosissimo del centro di Milano. Nella descrizione di questo incontro le parole “Amore” “Gesù” appaiono circa un miliardo di volte in tre righe.
Da una parte c’è l’incazzatura per l’irragionevolezza di Lucia, dall’altra è tornata prepotente la curiosità. Renzo probabilmente legge troppo e ha troppa fantasia: nella sua mente si generano visioni esagerate di neri che cantano gospel e ballano come nei Blues Brothers, americani in trance che svengono al tocco di predicatori-star, folle che osannano leader religiosi alla Paul Atreides in Dune.
I colleghi ovviamente lo spingono ad andare: mi metto dei baffi finti e vengo anch’io, che figata, filma tutto, dai vai, quando ti ricapita una roba del genere, finchè non lo convincono. Renzo accetta l’invito di Lucia.
Il piano è quello di andare, vedere com’è questa messa satanica, capire che idee ha Lucia, e nel caso salutarla definitivamente. Lucia è di gran lunga la ragazza più piacevole e divertente con cui lui abbia mai avuto a che fare e le è molto affezionato, ma è anche decisamente fuori di testa.
stacco sui titoli di coda sulle parole tristi e accusatorie di Sossity, You’re a Woman. Fine dell’episodio X
Pink Floyd - Brain Damage
Jethro Tull - Sossity, You’re a Woman
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Delle app di contact tracing

Riporto un mio articolo pubblicato qui. Lo riporto integralmente, quindi non avete motivo di cliccare se preferite di no :P
Partiamo subito dal punto: da tecnico, le prese per il culo “dai i dati a Facebook per sapere che verdura sei ma poi ti lamenti dello Stato che ti chiede i dati” sono una cosa che trovo penosamente ridicola. È uno di quei casi in cui si cerca di prendere in giro gli ignoranti dimostrandosi, su quell’argomento, ignoranti.
Provo, per quanto possa risultare spocchioso, a fare un minimo di chiarezza.

Di che parliamo, intanto

Parliamo di contact tracing, ovvero tracciamento dei contatti. Il contact tracing è una tecnologia (o una tecnica, dato che si fa anche tramite intervista “a mano”) che permette di sapere, in una qualche forma, con quali persone è stata “a contatto” una certa persona.

Ma quindi è la geolocalizzazione?

No. La prima cosa enorme da capire sul contact tracing è che non ha nulla a che fare con la geolocalizzazione, che è un’altra tecnologia con tutt’altro scopo. La geolocalizzazione è una tecnologia che serve a sapere, sempre in una qualche forma, dove sia stata una certa persona in un certo momento. Non è utile per il contact tracing, per almeno due motivi.
Il primo è che funziona decentemente solo a determinate condizioni, prima fra tutte l’essere all’aperto: non funziona negli edifici, non funziona in metropolitana, non funziona in certi veicoli, non funziona se il tempo è molto brutto.
Il secondo è che si basa sulla posizione geografica delle persone, e il fatto che due persone siano geograficamente vicine non significa che siano a contatto. Due persone a trenta centimetri tra loro ma con un muro in mezzo non sono a contatto, e questo con la geolocalizzazione non lo capisci. Due persone a zero centimetri tra loro su una mappa, ma una al primo piano e l’altra al ventesimo piano di un palazzo non sono a contatto, e anche questo con la geolocalizzazione non è banale saperlo (si potrebbe, ma che in un grattacielo l’altitudine sia accurata è improbabilissimo).

E allora come si fa?

Non c’è un modo davvero accuratissimo, in realtà, ma c’è un modo abbastanza accurato, che è l’utilizzo di Bluetooth Low Energy, un protocollo che normalmente serve a far comunicare il telefono con altri apparecchi, telefoni compresi, ma che ha un sistema per vedere quali dispositivi Bluetooth Low Energy si trovano nelle vicinanze. Avendo un raggio di scoperta molto piccolo (e regolabile, piú o meno), risolve entrambi i problemi esposti prima: non vede persone vicine ma con massicci ostacoli in mezzo, e non vede persone lontane come vicine.
Rispetto alla geolocalizzazione, si perde un’informazione: non si conosce dove fosse la persona. Si tratta però di un’informazione completamente inutile ai fini del tracciamento del contagio: mi interessa sapere con chi sei stato, dove foste è irrilevante.

E una volta “sentito” chi è vicino?

Ci sono due diverse scuole di pensiero su cosa fare dopo che il telefono di Anna ha scoperto che quello di Bruno è vicino.
La prima scuola di pensiero dice che il telefono di Anna debba dire a un server gestito da qualcuno “Ciao, sono l’app numero 123, ho appena incontrato da vicino l’app 456”. La seconda scuola di pensiero, invece, dice che tale informazione andrebbe salvata sul telefono.
Se Anna dovesse ammalarsi di COVID-19 e venire certificata come malata, “qualcuno” (possibilmente il sistema sanitario nazionale) dovrebbe “premere un pulsante” sull’app di Anna, che nel primo caso dirà al server “ehi, avvisa tutte le app con cui sono venuta a contato di mandare una notifica al loro utente!”, mentre nel secondo si occuperà lei di contattare tutti gli id che ha memorizzato e dirgli “ehi, manda una notifica al tuo utente”. Bruno, come tutti gli altri stati a contatto con Anna, si troverà sul telefono una notifica del tipo “Sei stato recentemente vicino a una persona che si è ammalata, chiuditi in casa e avvisa il sistema sanitario nazionale, che ti farà un tampone”.

Le problematiche

Ognuna delle due scuole di pensiero ha i suoi problemi. Nel primo caso, quello del server centrale, c’è un server centrale con tutti gli incroci di dati possibili. Non sono di banalissima interpretazione, ma forse se ne possono trarre piú informazioni del lecito, non ho le competenze per dirlo. Il secondo caso, quello con i dati sui telefoni, ha il piccolo grande punto debole del casino da fare per trasferire i dati in caso di cambio telefono.
Esiste poi un’altra problematica tecnica, risolvibile ma con cautela: i recenti sistemi di sicurezza dei telefoni, per motivi molto validi, non permettono a nessuna applicazione di tenere continuamente il Bluetooth in ricerca e visibile. Ovviamente si può chiedere ai produttori di fare uno strappo alla regola, ma non sempre possono (ci sono telefoni obsoleti) ed esistono buoni motivi per cui la regola esiste.
Infine, c’è una problematica di privacy: se l’app chiede qualsiasi cosa all’utente, dal nome ai dati sanitari, bisogna essere assolutamente sicuri che non comunichi tali dati al server, quantomeno senza un ottimo motivo, perché a quel punto sul server ci sarebbe l’informazione, del tutto inutile per le finalità del sistema, su chi è stato con chi. Non vedo motivi perché debba esserci.

Ok, ma tanto diamo tutto alle aziende private, perché non allo Stato?

Anche qui tocca procedere per punti.

Non diamo tutto alle aziende private

Intanto, no, non è vero, non diamo tutto alle aziende private. Diamo molte cose, è vero, spesso senza neanche accorgercene. Diamo la nostra posizione, diamo la lista dei nostri amici (non solo gli amici sui social, che valgono poco, ma anche le rubriche telefoniche), diamo alcune informazioni sui nostri gusti e sui nostri acquisti.
Non diamo però assolutamente a nessuno informazioni su ogni singola persona a cui siamo stati vicino. È un’informazione che al momento nessuno ha e che non esiste da nessuna parte. La creeremmo con quest’app, dando allo Stato (e, non è ancora escluso, ai privati che gestiscono l’app) un’informazione del tutto nuova su di noi.

Le aziende private hanno scopi diversi da quelli dello Stato

Le aziende private raccolgono i nostri dati per un fine ben specifico e molto remunerativo: vendere ad altre aziende la pubblicità. Non ci sono molte altre cose sensate che un’azienda possa fare (qualcuna c’è, ad esempio vendere valutazioni di rischio assicurativo e cose del genere, specialmente avendo dati sanitari) e nessuna include il perseguire persone per quello che fanno.
Lo Stato, invece, ha un certo interesse a controllare i cittadini.
Io sono di quelle persone che dello Stato italiano attuale si fidano abbastanza. Lo Stato però è una cosa che cambia nel tempo, e non sempre cambia in meglio. Dare allo Stato un accesso facile alle informazioni è una cosa molto pericolosa. Molte informazioni lo Stato può averle lo stesso, eventualmente dalle aziende private, ma con una certa fatica che non rende vantaggioso cercare di averle anche quando non è davvero importante averle. Rinunciare a questo paletto è un grosso passo, che si può benissimo non voler fare.

Le aziende private sono controllate

Sì, OK, fanno spesso quello che gli pare, ma fino a un certo punto. Le aziende private sottostanno a leggi, a organi di controllo degli Stati, e devono pagare spesso molto salato (in Europa salatissimo) se sbagliano. Se io utente di un loro servizio mi vedo fare un torto, ho tribunali a cui rivolgermi.
Lo Stato non funziona così, lo Stato le leggi se le fa. E dato che in Italia siamo tecnologicamente ignorantissimi e grandi amanti dell’uomo forte al potere, del legislatore non mi fiderei poi tanto. Se lo Stato dovesse usare i tuoi dati contro di te facendoti torto e si trovasse a farlo legalmente, non hai nessuno a cui puoi rivolgerti.

Caveat

Non sto dicendo, attenzione, in alcun modo che siano meglio le aziende private o meglio lo Stato. Posso preferire dare i mei dati per la pubblicità ma non rischiare domani di essere arrestato perché oggi ho partecipato a una manifestazione di un partito che sarà bandito domani, o posso fidarmi dello Stato ma non volere pubblicità basate su miei dati.
Essere d’accordo con dare dati a privati non è la stessa cosa che essere d’accordo con il darli allo Stato, e se a uno va bene una cosa non è affatto detto che gli debba andare bene pure l’altra in automatico.

Ma insomma Immuni te la scarichi o no?

Posto che con tutta probabilità l’app del governo italiano (ma anche tutte le altre) arriverà parecchio tardi perché sia utile — per fare le cose bene ci vuol tempo e il tempo non c’è — , la installerò certamente se risponde a due requisiti che ritengo importantissimi.
Primo, deve essere anonima, perché può esserlo. Ti serve poter notificare le persone a cui sono stato vicino, non ti serve né sapere chi sono (o forse sì, ma devi convincermi), né se soffro di *inserire malattia* (e qui no, non mi convinci, non ti serve).
Secondo, deve essere ispezionabile. Devo sapere cosa viene inviato davvero, se viene inviato qualcosa.
Mi sembrano due requisiti piuttosto semplici da rispettare. Qualcosa mi dice che invece…
Aggiornamento 23/4: e invece pare si torni all’idea di un sistema decentralizzato, con i dati sui telefoni e non online, perché posto come requisito tecnico per far tenere il Bluetooth acceso da parte di Apple e Google.
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Ho comprato la Moleskine di Super Mario Land.

Ieri sera sono andato a bere una birra. Uscito dal locale, dopo aver speso una ventina di euro in luppolo, ho incontrato Ishmael.
Ishmael ci chiede una sigaretta, gliela diamo volentieri e ce la fumiamo facendo due chiacchiere. Viene fuori che ha esattamente la mia età, trentasei anni, e che è nato in Ghana. Non ci ha tediato coi suoi problemi, ma mi ha fatto una serie di domande per accertarsi che la mia vita stesse andando per il verso giusto. Mi ha chiesto se sono sposato, poi mi ha prontamente chiesto se ho figli. Quando gli ho detto di no si è intristito, mi ha preso la mano e l'ha guardata come se fosse un'equazione di secondo grado:
"Tu avrai due figli. È scritto. Prova a fare questo. Prima di andare a letto, per due settimane, prega Dio. Vedrai che tua moglie ti darà due figli."
Poi mi ha mostrato la Bibbia e mi ha chiesto se ne avevo una. Gli ho detto di sì, ho spento la sigaretta nel posacenere e ho deciso di non rovinare i suoi consigli sulla fertilità con la mia filosofia childfree da strapazzo.
È un tipo strano, Ishmael, ma è simpatico.
Ci ha mostrato il suo passaporto, tutto fiero dei tanti timbri, ci ha detto che l'Italia è bellissima, che siamo brave persone e che Dio vede tutto e ha un piano. Che nel cielo c'è giustizia, anche se in terra non c'è.
Poi il commiato. Io verso la mia casa col condizionatore già acceso, perché quest'estate signora mia il caldo non finisce più, lui verso la panchina a dieci metri dal locale. Mi riprometto di dargli una mano e gli chiedo se l'avrei trovato da quelle parti il giorno dopo. Mi risponde di sì, mi saluta e mi augura buona fortuna.
Fast forward. Oggi, finite le prime traduzioni del mattino, infilo venti euro nel portafogli e vado a cercare Ishmael. Lo trovo lì, sulla sua panchina, con lo sguardo triste. È felice e grato per i venti euro che gli ho portato, ma durante la notte, mentre dormiva, gli hanno tagliato una tasca dei pantaloni e gli hanno rubato il portafogli. Quello con dentro il passaporto e la carta della Western Union che usa per spedire soldi a sua moglie e suo figlio. Mi dice che sta pensando di tornare in Ghana, ma che non sa come e cosa fare.
Gli suggerisco di andare al consolato, lo cerco sul mio cellulare fantascientifico e scopro che per fortuna è a poco più di cento metri dalla panchina. Vorrei dargli il mio numero di telefono, in caso avesse bisogno di aiuto, ma lui un telefono non ce l'ha. E io devo tornare a casa, perché ho roba da tradurre, lavoro da fare, cose da sbrigare. Ho una vita, insomma. Però ecco, realizzo che è proprio diversa.
Tornando a casa mi fermo in stazione centrale per comprare la Moleskine di Super Mario Land, pensando a tutte le cose che do per scontate:
Agrodolce. Ma più agro che dolce.
AGGIORNAMENTO 22 AGOSTO
Questa mattina sono andato da Ishmael. L'ho trovato sulla stessa panchina ed è stato felice di vedermi. Tanto per cominciare gli ho dato un foglietto con sopra il mio numero di telefono. Anche se non ha un telefono, in caso di emergenze ha modo di contattarmi.
Poi ho indagato sulla situazione. Ci sono buone notizie. Ha un permesso di soggiorno e una fotocopia della sua carta di identità (italiana) e del codice fiscale. Ovviamente sono carta straccia, per il momento, ma almeno sappiamo che li ha. Non ho modo di sapere se il permesso di soggiorno sia in corso di validità, ma vedremo.
Gli ho detto che l'avrei accompagnato in questura, che avrei parlato io e che avremmo capito cosa fare. Lui parla un inglese decente ma pochissimo italiano, quindi anche solo capire cosa fare (senza accesso a internet, poi) è un casino. Ieri aveva provato ad andare dai carabinieri, ma non ha cavato un ragno dal buco perché in realtà deve andare in questura.
Prima di andare mi chiede con un certo imbarazzo se posso procurargli dell'acqua. Ha sete e vorrebbe lavarsi la faccia prima di andare in questura. Altra cosa che do per scontata: poter essere pulito/profumato a piacimento. Fa colazione con un paio di patatine al formaggio che tira fuori dal suo sacchetto, mi fa un sorriso ed è pronto ad andare. Sulla strada mi mostra anche il foglio con i dati e i movimenti del suo account PostePay. Ieri aveva provato a farsi ridare la carta, ma giustamente senza documenti non gliela possono dare. È ovvio, ma dal suo punto di vista è frustrante e la cosa l'ha fatto arrabbiare. Il saldo sulla sua carta è poco meno di seicento euro.
Arriviamo in questura, dove il poliziotto, dopo aver visto le fotocopie dei documenti, mi dice che deve andare nella questura centrale, in via Fatebenefratelli, e che poi si vedrà. Io purtroppo devo tornare al lavoro, quindi lo accompagno alla gialla e gli spiego che deve scendere a Turati. Ha un foglietto con su scritto l'indirizzo, spero che i milanesi saranno abbastanza cortesi da indicargli la via. Gli ho detto di farmi chiamare se ci sono problemi, e che in ogni caso ci vediamo domattina alla sua panchina. Se non riesce, lo accompagno io e vediamo di risolvere il tutto. Mi auguro che trovi un poliziotto disponibile e umano.
Gli ho chiesto se vuole davvero tornare in Ghana. Mi ha detto di sì, che è quello che vuole. Che è stanco di non sapere cosa fare e di vivere su una panchina. Gli promesso che lo aiuterò e che risolveremo il problema.
Ho tirato fuori dieci euro per accertarmi che oggi avesse da mangiare, ma non li voleva. Mi ha detto che sulla sua PostePay li ha (ma sappiamo che non ha modo di prelevare e che realisticamente non lo avrà per qualche giorno), che non ha mai chiesto l'elemosina in vita sua, che non è giusto. Per convincerlo ho citato la Bibbia (io! Ateo marcio). Ishmael mi ha ringraziato e ha accettato.
Gli ho augurato buona fortuna e gli ho detto che ci vediamo domani alle 10 alla sua panchina.
AGGIORNAMENTO 23 AGOSTO
Ishmael è riuscito a fare la denuncia del furto dei documenti. Ancora non ha accesso al suo conto di Postepay (è ovvio, ci vuole proprio il documento, però comprensibilmente lui è teso per i suoi soldi e ci prova tutti i giorni). Ieri ho realizzato che perché riesca a ottenere i documenti ci vuole un aiuto più qualificato del mio, quindi su consiglio di vari amici (grazie a tutti <3) ho contattato il SAI, che ha il pregio di trovarsi a cinque minuti a piedi dalla panchina. Li ho chiamati, ho spiegato la situazione e ho dato il mio numero (con la preghiera di chiamarmi per qualunque intoppo, ma anche per le inevitabili spese di marche da bollo e affini). L'unico problema è che l'ufficio riapre lunedì, ma direi che ce la possiamo fare. Ho portato a Ishmael una borsa da ginnastica con dentro qualche maglietta, una bottiglia di sapone e tre litri d'acqua. È stato molto contento e mi è sembrato soddisfatto del piano. Il primo istinto è stato mettersi la borsa sotto le gambe, perché "qui altrimenti ti rubano tutto". Mi ha detto che è stanco di fare questa vita. E lo capisco, cazzo. Gli ho ripetuto che gli daremo una mano a tornare in Ghana, mi ha abbracciato e ci siamo salutati. Secondo me ce la stiamo facendo.
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[Memorie di un Viaggio] Varsavia e Kiev. Tra Comunismo, la ggggente, atterraggio d'emergenza... e anche quella cosetta che piace a tanti.

Immagino che con il titolo clickbait ho attirato l'attenzione di tanti. Si sa no? Tira piu' un PDF che un carro di buoi.

Un ex collega si fara' un week end a Varsavia. Devo prendere delle ferie, decidiamo di vederci direttamente la'. Dovendo prendere piu' giorni vado su Skyscanner con partenza dalla capitale polacca. Kiev per 30USD. Mi organizzo il ritorno a Dublino. Prezzo fattibile, si va.

Varsavia Modlin via Ryanair. Aeroporto del cazzo minuscolo, il bus per la capitale e' pieno e il prossimo e' troppo piu' in la'. Prendo il bus per la stazione dei treni e biglietto treno per Varsavia.
Poche indicazioni, salgo su un treno con un display che dice Warszawa. Per essere totalmente sicuro chiedo alla tizia che sta pulendo le carrozze dicendo solo "Warszava??" e lei annuisce sorridendo.
Mi siedo. Il treno parte dopo quasi 30 mins di attesa. Cazzo facevo prima prendendo il Modlin Bus che partiva dopo. Vabbe'.

Scendo a Warszava Centralna. La stazione e' vicina al Palazzo di Cultura e Scienze. Uno dei simboli della citta'. Sto palazzone costruito dai sovietici come regalo alla citta'. A me pare tipo la torre con l'occhio di Sauron che sovrasta tutto e dice "voi siete parte della gloriosa USSR".
La' a fianco c'e' un Tourist Office. Compro la Warsaw Card + trasporto pubblico. Una combo utilissima che consiglio. Come extra puoi avere anche il Hop on Hop off tour bus a gratis o un concerto di Chopin. La tizia non me lo dice, ma io lo sapevo. Stava per darmi il bus, scelgo il concerto.

Via di google maps, prendo il tram e vado all'Air Bnb. Zona "Praga". Arrivo e c'e' un centro commerciale vicino per ogni bisogno. Il monolocale e' minuscolo e sono solo, mi sta bene. Airbnb fila tutto liscio.

Si va a esplorare la citta'. Sono arrivati i soldi da qualche tempo e si vede. Intorno al Palazzo di Cultura e Scienze svettano dei grattacieli in vetro di alberghi, compagnie e finanza. JP Morgan. Marriott. So ssoldi.
Inoltre non sono rari vedere i manifesti del partito PIS in giro. MMhhh... mejo che me faccio i cazzi miei.

Vado al "centro" al palazzo reale (ricostruito dopo un bombardamento). Una free guide inglese spiega al suo gruppo. Leggo la pin dove dice "join us for free". Scrocco la spiegazione e me ne vado la' intorno da solo.

Il centro e' raccolto e con stradine. Bellino. Sembra strano pero', ha architettura vecchia ma non sembra antico. Leggero' dopo che infatti e' stato ricostruito dopo la WWII.

Qua inizia la prima "realizazzione". La warsaw pass da' accesso, gratuito o scontato, a varie attrazioni. Nel centro storico si entra al Museo della citta' di Varsavia a gratis. Vado.

A scuola parliamo di WWII, ti dicono che c'era quello coi baffetti che era il cattivo cattivo ed e' tutta colpa sua e basta e l'olocausto e' solo colpa sua ed e' cattivissimo.. Poi noi avevamo uno con la mascella ma abbaiava solamente e era innocuo. Poi c'e' stata la bomba atomica e hanno deciso di finire la guerra. "Facile no? Nessuna domanda, non ragionate, ciao".

Varsavia e' stata ricostruita da quasi zero. La guerra e' iniziata qua. Il ghetto ebraico. Tanti, tanti morti. Ok.

Un particolare light e' che la prima pizzeria apri' nei primi anni 90 (o 80 non sono sicuro). E' incredibile... probabilmente persino in Thailandia hanno avuto una pizzeria prima dei polacchi.

Concerto di Chopin in una saletta privata, eravamo max in 20. Con sorriso dico che la meta' erano asiatici.
Poi il Copernicus center che e' un museo della scienza interattivo adatto ai bambini. Il planetario assai fighino con immersione video.

Tutto costava abbastanza poco ma non stracciato. Uber funziona alla grande. I pierogi sono sublimi.

Il museo della Vita durante il Comunismo e' interessante. Alla fine e' una sala, con reperti dell'epoca. Hanno ricostruito all interno un tipico salotto, camera da letto e "bar" dell'epoca. Semplicemente sembra di essere nei primi anni 60. Leggi che era cosi' intorno agli anni 80. Ti cade la mascella.
Lo stereotipo delle calze. Riconfermato dalla targhetta vicino a uno stendino con calze che all'epoca erano un bene importantissimo. Le donne non portavano i pantaloni e le calze dovevano durare. Si riparavano.

"vabbe' vabbe' il PDF?"
Mi pare gia' di sentire.

Dopo Praga sono quasi immune. Le polacche sono carinelle ma non ho smascellato. Ero troppo occupato a visitare la citta' poi per farci caso.
Degno di nomina un paio di gemelle, sulla 20na. Sul tram erano davanti a me, biondine occhi azzurri. Carinissime con visi con tratti dolci. E son partiti film mentali degni di Brazzers.

KIEV
Volo con la linea nazionale ucraina. La divisa delle stewardess e' assai azzeccata.
Atterro e vado al tourist office dell'aeroporto per prendere la Kiev Pass. Non la vendono. Mi indica il bus di connessione alla citta' e di prendere la metro per arrivare al centro commerciale "Gulliver". La' c'e' un altro tourist office.

Monto sul bus, il tizio non parla inglese. Butto lo zainone in un luggage store dentro al pulman. Tiro fuori le Grivne che avevo cambiato a Varsavia, mi fa cenno di sedermi e basta. Ripassera' dopo a prendere il pagamento.
Mi guardo la mappa data dalla tizia del tourist office con le indicazioni. Non ho una cazzo di idea di dove scendere. La tizia seduta a fianco a me mi aiuta. Mi dice di scendere alla prima fermata.
Il bus arriva in questo "mercato" fatto di container ristrutturati a negozietto. Me pare l'Albania. Scendo e vedo una M verde.
Prendo un biglietto alla biglietteria. 8 grivne e ti danno un gettone tipo sala giochi, ma di plastica. Metto nel tornello e passo. Scendo per le scale mobili.
CAZZO quanto sono profonde le metro in Kiev. Hanno anche il record del mondo, 105 metri.
Le stazioni sono decorate con motivi e temi... liberty? Scusate sono ignorante. Si respira il classicismo sovietico. Tutto marroncino e panna. Dal soffitto penzolano dei cazzo di lampadari a illuminare (male) la stazione.
Arriva la metro. Carrozze vecchissime, anni 50? Blu e gialla, come la bandiera. Rumorissime dato che non hanno climatizzazione e quindi lasciano i finestrini aperti. O la metro e' lenta (non credo) o le stazioni sono lontanissime (probabile). Da come siamo abituati, ci si mette un casino tra una stazione e l'altra.

Arrivo al Gulliver. Il tizio e' gentilissimo e spiega tutto di tutto. Mi da il suo numero personale, mi dice di contattarlo per tutto. Mi aiuta ad attivare la scheda sim locale. Dice "italians good! I like! Italians always emotions! I like!".
Vado all'airbnb che puro caso era vicinissmo al Gulliver. Entro questo edificio che sembrava essere sopravvissuto al Kosovo. Scale rovinate, pavimenti con mattonelle rotte. Superata la porta dell'appartamento tutto perfetto e ristrutturato.
Solo che la "Studio apartment" era na cazzo di stanza. La tizia aveva ristrutturato due appartamenti e divise in camere studio individuali, quindi ero in una sorta di hotel. Vabbe', sticazzi.

Kiev ha tantissime belle chiese con le loro cupole dorate. Parchi a iosa ognuna con un suo monumento. L'architettura della citta' e' maestosa. Le piazze e i monumenti sono impressionanti.
Il monumento alla patria e' una statua di donna con spada e scudo con sopra falce e martello. Di una maestosita' assoluta.
Da qui tutti i monumenti sono "ai caduti di" "agli eroi di" "alla grande fame del". Hanno preso tante batoste.

Adoro mangiare nelle mense sparse nei quartieri degli uffici. Non devo conoscere la lingua locale, posso vedere i piatti e scegliere.
Il Borsch e' stupendo. I loro ravioli di carne o di patate o di verza, idem. Avevano sto piatto fatto tipo torta di pancake/frittatine sovrapposte e panna acida. Decorata con carote, fagiolini e aneto. Una delizia.

"si vabbe' non ce ne fotte un cazzo, ma il PDF?"
Prima vi dicevo che Praga mi aveva dato il primo shock e mi sentivo immune. Ringrazio il cielo di essere stato la' prima.
Se a Praga dovunque e chiunque sono PDF, a Kiev sono livello Modelle da Fashion Week PDF.
Si diventa stupidi. Oltre a essere bellissime, le ucraine sono FEMMINILI. E ora le donne del sub mi uccideranno.

Ma in Ucraina ho imparato che le RAGAZZE, possono ANCORA INDOSSARE LA GONNA. E lo dico in senso figurato e non.
Si vestono come donne, sanno essere femminilmente eleganti senza strafare. Meno cappottoni piumozzo Omino Michelin, piu' cappotti lunghi marroni e trench. Meno sneakers, piu' stivaletti corti. Meno jeans, piu' gonne e calze.

Nella metro, incrociando qualcuna che scendeva mentre salivo e viceversa, mi e' capitato piu' di una volta di fare eye contact perche' ero genuinamente affascinato dalla naturale bellezza. Nessun sguardo "cazzo vuoi?". NEMMENO INDIFFERENZA.
Ho ricevuto sorrisi piu' o meno aperti, altri deliziosamente un po' imbarazzati. E ho ricambiato con un sorriso leggero e distogliendo subito lo sguardo. Ok ti trovo carina, ma non faccio lo stalker.

La gente e' un po' diversa la'. Non sorridono molto. La metro non ha il segnale di avvertenza chiusura porte. Te le chiudono in faccia e basta. I camerieri non erano abituati ai miei "spasiba" per ogni cosa. Sempre la metro ha delle porte molleggiate pesantissime che si aprono in entrambe le direzioni. Pesanti e molleggiate che se non fai attenzione quella che ti torna indietro verso di te ti puo' rompere tranqullamente il naso.
Pochi tengono la porta per la persona dietro. Io lo facevo sempre, ho ricevuto a volte degli sguardi "ma perche' mi tieni la porta?"

TINDER
Volendo conoscere meglio le persone locali (si si ok... dai.) ho utilizzato tinder.
Tra i match ho avuto un paio di mignotte dichiarate. Una che diceva "cerco uno che soddisfi i miei bisogni materiali". Un altra che dice "ho bisogno di uno che mi mantiene".
Una invece ci parlo normalmente, mi chiede dove sono e io "vicino al Gulliver". Lei fa "io sono proprio al Gulliver, vediamoci".
Vado. Andiamo in un ristorante/bar fighetto e prendo un prosecco. Lei un the'. Parliamo del piu' e del meno. Mi dice che alla mia eta' gli uomini sono maturi e sanno quello che vogliono. Che le piace.
Mi dice che sembro mezzo kazhako (sono cinese) ma sono italiano dentro per come parlo. Le piace.
Mi dice che sono un tipo a posto, le piace.
Concludiamo poco dopo per non appesantire troppo questa prima uscita. Mi chiede se amo la cioccolata, dico di si. C'e' un carrello di cioccolata artigianale, ne ordina 30E e pago io e se le mette in saccoccia. Va al bancomat per ricaricare il cell, dice che non ha grivne con se che e' tornata da poco da un viaggio. Mi batte la ricarica.
Inizio a sentirmi un mezzo coglione, ci salutiamo e poi realizzo che, seppur per due stronzate, m'ha battuto dei soldi.
Mi passa la voglia di sentirla, lei si fa risentire per una eventuale cena. Io dico di si, e le butto un aperitivo/bicchiere di vino da me prima. Sparisce. EHhehehehe.

Tizia Tinder 2. Sempre stocazzo di centro commerciale. Come arriviamo al bar e parliamo, mi batte i soldi del taxi. "qua e' normale. Te non puoi venirmi a prendere perche' non hai l'auto qua, ma si fa cosi' qui. Tu vai a prendere la tua donna." Io da mezzo cojone mi sento TUTTO cojone.
Parliamo del piu' e del meno, e a una certa la becco che mi squadra l'orologio per capire di che marca/valore e'. Un cazzo di Citizen (bello) da 100E.
La' mi cala totalmente, chiudo l'appuntamento e saluto. Same story poi si fa risentire per rivederci, offro sempre bicchiere di vino da me, dice che mi fa sapere. Sparita. EHHEHEHEhhHE.

Mando a fanculo Tinder e lascio perdere. Mi godo la citta' per quello che e'.

Girando e camminando prendo un appuntamemto per un massaggio. C'ho le gambe stanche e fa anche freschetto a tratti. Mi coccolo.
Centro ok, sembrava quasi medico. Inizio a parlare con una tizia mentre aspetto, scherzando e altre cose le dico che sono un panzone e bla bla. Si finisce a parlare di mangiare quindi, e me ne esco in totale non chalance "e allora stasera ti porto a mangiare fuori dai".
Mi dice di "si".
Mi faccio dare il numero e faccio il vago. Dentro ero "cazzo non ero mai arrivato a questo punto cosi' di punto in bianco. E mo'?". AHHAHAHA
Beh insomma me ne vado e ho il tempo per organizzarmi e riordinare le idee.

Decido il posto, le scrivo, ristorante di carne. Bella seratina, chiacchiere e risatine. Inglese stentato ma si comunica. Ogni tanto google traduttore, ma non eccessivo. Ovviamente gesticolo tanto per farmi capire e uso un simple english anche maccaronico per essere piu' comprensibile.
Anche lei mi fa "Your emotions, so funny". Non sono proprio abituati a persone che si esternano molto. "My english not good, but you talk, you hand, I understand everything". Mi fa piacere, si sente a suo agio, comprende e si sente "compresa".

Dopo cena mentre aspettiamo l'Uber che la riporta a casa, tento il bacio. Vado la' dritto ma gentilmente, non a fulmine o per rubarlo sto bacio. Ride e gira intorno al mio viso e mi bacia in fronte. Riprovo. Idem con bacio sul naso. Vabbe', almeno non mi ha spinto via o reagito di scatto/male.

Rimaniamo che ci vediamo il giorno dopo. Passeggiata e poi ci ritroviamo nel centro commerciale. Diamo uno sguardo ai negozi, le dico di provarsi una gonna. Mi piace fare shopping cosi' dove la ragazzafa da "modella" e esce dal camerino e mi fa vedere come sta con le cose.
La prova, mi fa vedere, le dico che le sta bene. Le chiedo se le piace. Mi dice di si. "Ok prendiamola". All'inizio non capisce e dice che non vuole spendere soldi. Carinella, mica avevo capito che pagavo io. 25E da Beshka o qualcosa del genere.

Rimane contenta, continuiamo la nostra serata e andiamo a mangiare. Dopo cena ritento l'approccio. Ci baciamo.
Mi dice che una sua amica e' offesa che non si fa viva da qualche giorno. Mi dice che vuole stare con me e non vuole farla arrabbiare, propone di stare insieme tutti e tre.

Accetto, mi presenta l'amica. Carina, simpatica, ha un figlio. Inglese veramente scarso ma qualcosa riusciamo a dircela. Serata ad un hookah bar. L'hookah e' il loro nome il narghile'. Poi se tecnicamente sono due cose diverse, nin zo'.

Finita serata rimaniamo che ci vediamo anche il giorno dopo. Presto dovro' ripartire e ci va di stare assieme.

Due pomeriggi e sere ok, di cui un altra sera con amica. Ci vede baciarci, fa' la faccina "ohhh che piccioncini" e fa' "you good man. My friend lucky. Good man". Meno male... ho l'approvazione di amica. Che mi pare assai importante visto che non ha potuto evitare di non vederla.

Un pomeriggio ha accettato di venire da me. Ho provato il colpaccio ma non ha voluto. Beh cazzo, mi conosce da 3 giorni mi pare anche legittimo da parte sua. Poteva andarmi meglio, non e' stato cosi.

Ora sono tornato. Ci sentiamo su Viber. Non e' espansiva e non mi scrive per prima. Penso che sia che non sono abituati troppo a esprimersi, e la' la Donna fa' la Femmina.

Oppure sono tutte scuse mie e non je ne fotte un cazzo. Chissa'. Fatto sta che l'ultima sera ha detto che voleva rivedermi.
Fatto sta che INCREDIBILE ma vero Ryanair ha aperto rotte su Kiev proprio questo ottobre. Fatto sta che parlando su Viber ho accennato a un mio ritorno.

Fatto sta che ora ho il volo prenotato per il 12 novembre.

ATTERRAGGIO D'EMERGENZA

In fase di decollo da Kiev abbiamo beccato un uccelo che si e' sfracellato su una antenna dell aeromobile. Capitano ha dato annuncio di atterraggio e ha dichiarato "il volo piu' breve che abbia mai fatto".
Tutti a lamentarsi e sbuffare, io sto ancora qua a ringraziare il cielo che posso raccontarlo in giro sto fatto.

P.s.Sto cercando di farmi altri contatti e mi iscrivero' a una chat/siti di incontri russi o qualcosa del genere. Per quanto sia carina e mi piaciucchia, non mi faccio una cazzo di imbarcata fino a laggiu' per scommettere su una persona sola.

P.p.s.Lei ha 21 anni. Io 35. Lei non sa che eta' ho. :D
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[flame] [leghismo] [PADANIA] [facciam tutti ca'are] il razzismo verso i settentrionali

Buondì. Ispirato dal referendum per l'indipendenza veneta e dai suoi prevedibili stascichi (come l'evidenza che esiste una cultura per l'omogenizzazione del nazionalismo "italiano" francamente idiota), mi salta lo sghiribizzo di parlare di una piaga che affligge 1 italiano su 45.
Un italiano su 45* è costretto a trasferirsi per motivi di lavoro (va a rubare soldi a Roma ladrona), familiari (si innamora di una calabrese), economici (in Sicilia il pane costa meno) dal produttivo Nord al produttivo Sud.
Per qualche giorno, tutto fila liscio, il meteo è superlativo, il gelato è più buono, c'è un po' di casino ma i prezzi sono più bassi, figata.
Poi, però, capita l'inevitabile: si finisce col parlare di cibo locale.
Ora, i piatti del sud sono fantastici, e sono disposto a discutere di tutto fuorchè della superiorità della pasticceria siciliana, ma anche al nord ci difendiamo. E allora tiri fuori i pizzoccheri, la bagna cauda, la cassoula, la barbera e la polenta concia.
Ed ecco, a quel punto, che esce fuori il razzismo dei terroni verso il nord: "MA NOI LA POLENTA LA DIAMO AI MAIALI!!!" "VOI AVEVATE LA SCABBIA, LA RABBIA E LA SABBIA!" "CAVOUR VAFFANCULO".
Non solo il meridionale rivendica i torti subiti dalla sua terra dall'annessione nell'Italia, ma, piano, sottile e subdolo, come una lama tira fuori una serie di luoghi comuni verso i settentrionali che vengono coltivati nel Sud, per dipingere piemontesi, lombardi e triveneti come:

Quindi, amici colpiti da questo neoborbonismo d'accatto, che fare?

EDIT: Aggiunti contributi dal 3d
*come rilevato da me con questo palmo e questo pollice.
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